Un disco che arriva dopo due anni di concerti sparsi tra Regno Unito, Giappone, Asia, Sudamerica e Italia. Enzo Favata, polistrumentista sardo la cui ricerca coniuga da sempre arcano e futuro, sperimentando linguaggi e culture musicali differenti, ha dato alle stampe l’album “The Crossing”, realizzato con Pasquale Mirra (vibrafono e marimba midi), Rosa Brunello (basso e contrabbasso) e Marco Frattini (batteria e percussioni), pubblicato per l’etichetta “Niafunken” e distribuito da Goodfellas.
Un lavoro che ha reso questa formazione ancora più affiatata e compatta intorno ad un nome emblematico, “The Crossing” appunto, inteso come attraversamento, passaggio, un nome che racchiude i diversi stili che si fondono nella musica di questo quartetto: un vortice di minimalismo, space rock, jazz contemporaneo, musica elettronica e world jazz.
Già dal primo ascolto lo sguardo al jazz-prog degli anni Settanta assume un suono contemporaneo e originale in un trafficato incrocio sonoro, dove autostrade elettroniche si intersecano con piste desertiche, ipnotiche ritmiche etiopi e assordanti strade metropolitane. Favata, da 30 anni sulla scena jazz internazionale come musicista creativo ma anche come produttore, ha voluto curare con particolare attenzione la produzione artistica dell’album, senza però rinunciare alle dinamiche e all’interplay live tipici del jazz. Il risultato è un suono contemporaneo, che guarda alla tradizione come fondamento, per poi svilupparsi in innumerevoli direzioni. Il jazzista sardo racconta così la nascita del disco, nel quale suona il sax soprano, il clarinetto basso, il flauto indiano, il theremin ma non solo: «Oltre al titolo dell’album, “The Crossing” è anche il nome della band che avevo in mente di costituire da molto tempo. Per scrivere e creare la musica anche con l’elettronica, avevo bisogno di trovare dei jazzisti che avessero un nuovo modo di porsi nel trattare i materiali musicali, che fossero liberi, padroni del jazz e di altri linguaggi. L’equilibrio e il grande interplay che si è creato dopo varie tournée con Rosa Brunello, Marco Frattini e Pasquale Mirra è quello di una vera e propria band e lo si sente sul palco, grazie alla passione, all’affiatamento e al grande virtuosismo dei musicisti coinvolti. Ho deciso di riportare l’atmosfera live direttamente dal palco sull’album, passando dallo studio solo per aggiungere alcune parti dell’arrangiamento con tastiere analogiche che hanno caratterizzato il suono degli anni Settanta, coinvolgendo altri musicisti in sala di registrazione, per creare piccoli camei orchestrali inseriti negli arrangiamenti. Una scelta creativa che ha aggiunto quel sapore di attraversamento temporale e di genere. Quattro brani su sei sono stati registrati la scorsa estate, durante un tour in Italia. In studio sono state fatte alcune registrazioni addizionali, lasciando inalterata l’energia del live. Scrivere parti aggiuntive su di una forma già prestabilita mi ha dato modo di espandere e centrare maggiormente il progetto discografico. Oltre ai nostri strumenti tradizionali abbiamo usato synth analogici vintage degli anni ’70, chitarre elettriche, organi analogici, voci utilizzate come strumento, parti orchestrali e un quartetto d’archi, insieme a strumenti inusuali. Mi sono avvalso di ospiti straordinari come Salvatore Maiore, Marcello Peghin, Maria Vicentini, Ilaria Pilar Patassini e la virtuosa dello guzheng, la cinese Zhan Qian, con cui ho tenuto dei concerti in Cina e che ha inciso la sua parte in uno studio di Nanchino. Nella sessione in studio abbiamo registrato due brani: “For Turiya” di Charlie Haden, omaggio ad uno dei musicisti più poetici del jazz, e un pezzo nuovo, intitolato “Black Lives Matter”, molto elettronico e potente, nato da un’idea comune del nostro collettivo. Insieme al quartetto, idealmente rappano Malcolm X, Fela Kuti e Steve Biko: il messaggio del brano ricorda che il razzismo è un problema mai risolto. La traccia passa dal caotico e contemporaneo paesaggio metropolitano, con una dinamica drum&bass, verso l’Africa felakutiana».
L’album si apre con “Roots”, brano di Ian Carr’s Nucleus, leggenda del jazz-rock inglese degli anni ’70, e lo spirito creativo di quel periodo è presente come un richiamo nel disco. Rispetto alla versione originale Favata ha creato un arrangiamento originale, inserendo parti orchestrali e per quartetto d’archi insieme alla voce e ai suoni dei synths analogici. Tra questi il theremin, che nell’album spesso fa sentire la propria voce come una sorta di filo conduttore. “Turn” è, invece, un brano già presente nel repertorio di Favata, con un suono decisamente originale e con diversi interventi di strumenti elettronici, tastiere e organi vintage, theremin e synth analogici. “Salt Way” ci porta in un “quarto mondo” sonoro, ma si ispira e racconta ancora l’Africa e, in particolare, l’Etiopia insieme alla famosa “via del sale” che parte dalla Dancalia: è un brano molto sentito, suonato magistralmente dalla band e dai suoi ospiti, un omaggio alle frequentazioni etiopi di Favata, che nel corso della sua carriera ha collaborato con molti musicisti locali, tra cui l’icona Mulatu Astatke.
“Oasis”, che chiude l’album, è una traccia ipnotica in cui il jazzista sardo sceglie il suo secondo strumento, il clarinetto basso, per esplorare scale etiopi, in un crescendo che si sviluppa in 12 minuti, da gustare tutto di un fiato come le vecchie facciate intere degli Lp di una volta.
Un altro elemento degno di nota è la cura quasi maniacale con cui è stato registrato e mixato il suono di un disco apparentemente difficile, vista la sua natura live. Favata voleva ricreare un ambiente e un sound tipico delle grandi produzioni prog e psicheliche degli anni ’70, utilizzando strumenti originali dell’epoca, mixer, compressori ed effetti analogici. Per questo compito ha chiamato Alberto Erre, senior sound engineer e grande conoscitore dei filtri analogici. Il fonico e il musicista sardo hanno saputo creare un colore davvero speciale, un suono caldo e avvolgente difficilmente raggiungibile con i nuovi sistemi digitali.
Applausi.